E lasciami sfogare! Perchè è tutto un affare di sfoghi, piccole indignazioni private che diventano pubbliche lamentele. L’Avvelenata di Guccini, Dov’è Dov’è di Baglioni, invettive contro l’industria

discografica come Have a cigar dei Pink Floyd o il grande fuck off ai giornalisti dei Guns n’ Roses di Get in the ring. Fabio Zuffanti non è da meno ma, fedele al suo concetto di “arte per l’arte”, non affida a un brano bensì a un libro il suo personale j’accuse contro la “malamusica” italiana.

L’antefatto è noto. Nel gennaio del 2011 il compositore genovese scrisse una lettera contro le caste, le corporazioni e le parrocchie che dominano il nostro panorama musicale: un piccolo “caso” amplificato da adesioni e diffusioni nei social networks, che hanno dato maggior sicurezza al nostro, stimolandolo all’avventura editoriale. O casta musica è un approfondimento di alcuni temi affrontati in quella lettera: il ruolo della televisione e dei talent, il potere di alcuni network e l’influenza sui gusti del pubblico, il panorama “indie” e più in generale il senso del fare musica oggi in Italia. Insomma un vero e proprio “pamphlet ribelle” che intende sollevare l’attenzione sulla casta musicale.

Zuffanti è chiaro nelle sue intenzioni e più di una volta non fa mistero dell’ingenuità del testo. Ingenuo perchè nato “di pancia”, da uno sfogo, da una serie di domande legittime e comprensibili per un musicista di talento, di qualità, con un ruolo cruciale per la rinascita di certo rock d’arte non solo in Italia ma anche all’estero. Insomma Zuffanti non è un quivis de populo ma un artista con una rilevante storia personale, che si interroga sul senso di fare musica in un paese mai affrancatosi dal corporativismo. Ecco perchè le domande non sono ingenue (una domanda non è mai tale quando nasce da una sincera curiosità), anzi Zuffanti dà voce a tanti interrogativi che sicuramente molti appassionati di musica si saranno posti, uno su tutti: ma perchè tanto spazio per Brunori SAS-Colapesce-Luci centrale elettrica-Amor Fou-I Cani e amenità varie? E soprattutto: cosa hanno da dire costoro? E’ solo questione di potenza degli uffici stampa o c’è altro dietro?

A Zuffanti si può perdonare una scrittura spesso imperfetta, ma non l’assenza di una presa di posizione forte, come ad esempio ha fatto Bill Bruford nella sua autobiografia: un sociologo o un giornalista scafato avrebbero saputo intercettare meglio certi meccanismi e comprendere le domande che l’ascoltatore medio pone oggi alla musica. Fabio invece resta un po’ in superficie: lo dimostra la parte più intrigante del saggio, ovvero quella delle interviste agli “addetti ai lavori”, dove alle domande intelligenti seguono risposte precise e per niente anodine. A Zuffanti va comunque il merito – e non è poco – di aver sollevato l’attenzione su un malcostume che, anche nel campo dello spettacolo, conferma quanto sia alieno al nostro paese il concetto di meritocrazia.

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D.Z.