Quando nel 2011 pubblicai “Prog. Una suite lunga mezzo secolo”, raccolsi svariate critiche sulla copertina. Una cover di cui l’editore era soddisfatto e che in fin dei conti piaceva anche a me, visto che comunicava tutta l’importanza di un genere durato quasi mezzo secolo. Ciò che invece non piacque a molti lettori era quella patina di vecchiume e decadenza che viene ancora oggi imputata al progressive. Ho avuto la stessa sensazione osservando “Hypnerotomachia” degli Inior: la copertina ispirata a una stampa del 1600 del Museum Wormianum potrebbe evocare lo stesso alone “old time” che altrove non crea problemi, ma che nel prog è continuo fattore di condanna.

Motivazioni grafiche a parte, il debutto degli Inior è all’insegna di un orgoglioso e sentito new progressive, che tuttavia non nasce ex abrupto: la formazione romana, in pratica il duo Flavio Stazi e Marco Berlenghini, arriva al termine di un percorso inaugurato anni fa con gli Apple Device. “Hypnerotomachia” apre un nuovo cammino, complice anche la collaborazione di una validissima colonna ritmica della capitale, ovvero il batterista Danny Pomo. Concept un po’ demodè dal sapore fiabesco e onirico, organico variabile a seconda dei brani, pezzi di breve e media durata concisi e mai prolissi, sonorità in movimento tra tentazioni floydiane e il tipico new prog all’italiana, quell’ideale arco che partì da Edith e Leviathan per arrivare a Yleclipse e Silver Key.

“The Paper Ship”, l’impetuosa “Stain of Steel” e “Starslave” – episodi tra i più rappresentativi dell’album – rivelano attenzione ai cambi di atmosfere (dal meditativo al serrato) e al respiro melodico, anche se talvolta denotano involuzione e staticità, elementi che purtroppo non giovano al progressive, sempre bisognoso di dinamismo e scatti; non è un caso che quando gli Inior spingono, il risultato è assai coinvolgente (“From blue to red” e “Ini.Or”).

Un dignitoso lavoro d’esordio, con alcuni accorgimenti da mettere a fuoco, che una buona attività dal vivo potrebbe rapidamente mettere in pratica.

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