Antiviaggiatore? Antiturista? No, più semplicemente sono un disordinato collezionista di scorci ed emozioni. Le mie vacanze – solitamente brevi e intense come un blitzkrieg, oltre che inevitabilmente collegate a impegni lavorativi – lo testimoniano. Niente file ai musei, niente visite di massa a parchi, cattedrali o reggie, bensì una disarticolata teoria di passeggiate lunghe, larghe, notturne, centrali e periferiche, tra mercati, bar, piazze, angoli e postacci. E’ banale dirlo ma è così che mi piace scoprire le città: penetrandole segretamente e di nascosto, al di fuori dei rituali da tour operator, evitando contatti pericolosi col turista fotomunito che cammina e sosta con la leggera grazia di un bue muschiato dopo la pappa.

Trieste, Venezia, Torino, Roma le ho assorbite così: facendomi guidare esclusivamente da loro. Firenze in particolare, negli ultimi tempi, la sto affrontando con incredibile sete e sento di conoscerla bene, nonostante non abbia ancora visitato il Duomo, nonostante non abbia ancora goduto del verde abbraccio del Giardino di Boboli. Mi lascio accompagnare dai suoi profumi, la lascio fare nel suo condurmi gironzolando tra borghi e viuzze. Perchè il fascino di Firenze è nell’abbondanza di fantasmi. Proprio quelli che Giorgio Manganelli lamentava di non aver trovato a Pescara e che rendono ogni città – guarda un po’ – viva.

I fantasmi che solitamente ci palleggiano, in questa profumata tornata fiorentina ci hanno fatto scoprire luoghi deliziosi ed emozionanti. Borgo Albizi, Costa S. Giorgio, l’insegna del macellaio in Via Romana, la fonte di acqua gassata dietro le chiappe di Nettuno in Piazza Signoria, l’osteria di Marione che mi ha riempito la panza di ottima ribollita (ma in quanto a polpettone, dear Marione, mia suocera ti straccia), le nuove Murate (grazie a Francesca, Marco ed Edoardo per averci condotti in questo splendido esempio di riconversione e politica culturale). Mi piace prendere l’albergo in zone affollate per praticare il mio sport preferito dopo il footing alle prime luci dell’alba e lo zapping serale tra tv locali: il gonzo-watching. Affacciarsi alla finestra tra via Panzani e Cerretani e osservare la fiumana di gente – japanese gonzos above all – formicolante tra stazione, Santa Maria Novella, baretti, agenzie di cambio e negozi di abbigliamento è meglio di un vorticoso tour psichedelico.

Il bello di questo itinerario gnoseologico è che parte prima, quando organizzi lo zaino (no trolley, no struggle), quando fai appello al Bodhidharma perchè ti ripeta seduta stante l’antica essenzialità zen. Riempire lo zaino con il minimo indispensabile è un’arte che si perde nella notte dei tempi, alla quale tuttavia la mia saggia consorte è stata iniziata con dovizia e severità. Il sottoscritto invece, dopo aver sostenuto una massacrante selezione di libri dalla quale escono vittoriosi due libricini sottili per non ingombrare, soffre indicibilmente nel predisporre il vestiario: con la conclusione che poi, durante il soggiorno fuori, indosserà solo uno dei numerosi capi ficcati con insistenza nella borsa. E il povero zaino dovrà prevedere anche uno spazio supplementare per gli immancabili acquisti in loco, solitamente lontani dalla logica colonialista del souvenir.

Per me conoscere definitivamente una città equivale a consegnarle sensazioni olfattive e tattili. Sentire il pietriccio della spianata di Palazzo Pitti sotto le chiappe è il massimo, soprattutto quando ti stravacchi lì sopra orgoglioso di due trofei: polacchine da vegetable man comprate in Sant’Ambrogio e l’ennesimo gioiello di Piero Chiara preso in una bella libreria che consiglio vivamente. Roba che mi chiamava da lontano e che insieme a me già pensava alla partenza, alla preparazione dell’iPod ancora una volta con Fate Of Nations di Robert Plant, perchè alla fine di ogni viaggio arriva l’immancabile domanda: quanta chitarra c’è in Come Into My Life?