Fasano. 9 giugno 2017, notte fonda, Hotel Sant’Elia. Ho lo zoo di fronte. Come sempre.

Anzi, come dal 2008, ma tale è la frequenza fasanese, tali sono le ritualità, l’abitudine e la familiarità, che mi sembra di essere sempre qui. Puntuale, preciso, stabile. Come la selva indistinta di rumori degli animali lassù. Un concentrato di barriti, ruggiti, pigolii, sibili, ragli, cinguettii, ululati, miagolii, squittii, trilli, fischi, friniti, nitriti, grugniti, bramiti, guaiti e gasparriti. Un concentrato strano però: lontano, con episodiche impennate di singole bestie che il buio rende audaci o spaventate, e che la notte rende fragorose perchè isolate, enigmatiche perchè subito catturate dalle tenebre.

Ogni anno qui, a curare la promozione del Fasano Jazz, giunto alla XX Edizione. Venti anni, roba importante. Io lo seguo da curioso dagli inizi degli anni 2000, da collaboratore dall’Edizione 2008: per intenderci, quella del cartellone Bruford-Borstlap-Montecalvo-Auger-Holdsworth-tutto-d’un-fiato.
Ogni anno a Fasano si arriva prima. Lo dico sempre e vi sarete annoiati, però è così: guai a essere al Kennedy o al Sociale alle 20.30, mezz’ora prima che aprano le porte. No, a Fasano si è davanti al teatro perlomeno intorno alle 19. Bisogna seguire tutto, annusare i passi dell’artista che sta finalmente arrivando per il soundcheck, impregnarsi della sacra scia del divo appena andato via. E se possibile, meglio imbucarsi a cena per vederlo da vicino, scoprire che si ciba anche lui e togliergli dieci minuti di vita per autografare quel minimo sindacale di 18 vinili (mi raccomando quelli ufficiali, perchè l’artista il bootleg non lo firma).

Ogni anno spero di venire più leggero. In verità ci provo, con tutto me stesso. Ma non è semplice. Da qualche parte, in qualche frattale di Facebook, c’è una foto di Francesca ed io che salutiamo Steve Hackett dopo il concerto – a naso Fasano Jazz 2011 – con due zaini da montagna imbottiti di ogni cosa sulle spalle. Ogni anno la persona sana che abita dentro di me – uno spazio piccino, sia chiaro – mi dice di non voler più assistere all’arrivo del gitante con zaini e valigette gonfi di musica, e ogni anno lo deludo.

“The world weighs on my shoulders / But what am I to do?”, cantavano i miei amati Rush nell’84, anno santo perchè fece capolino Grace Under Pressure tra uno Spandau Ballet con spalline e permanente e uno Springsteen bicipitico: e quel peso sulle spalle, carissimi Rush ai quali ho persino dedicato il titolo di questo diario, è ancora lì. Oggi pomeriggio nella Zoppomobile – in una delle innumerevoli soste all’autogrill che costellano il viaggio verso il Fasano Jazz – mi sono ritrovato persino un malloppone di libri. Spero di non leggerli incrociandoli, come capita spesso, altrimenti le Nuove Geografie di Star Wars si ritroveranno a Canterbury con gli Arcade Fire in cuffia. Buon Fasano Jazz.