Se è vero, come scriveva Cristina Campo, che la poesia pura è geroglifica, da decrittare in chiave di destino, che ne sarà della poesia di Totò? Come decifrare il lascito di quella creatura storta, il patrimonio elastico e deflagrante di musicalità, fisicità, arguzia, fame, scatto e meditazione?
Il genio non si soppesa né si viviseziona, è universale e totalizzante, ma sovente ho la sensazione che Totò non sia adatto a questi tempi grami. Invecchiato? Inattuale? Sorpassato? Il genio è superiore – ma anche inferiore, laterale, obliquo e sghembo – allo scorrere del tempo, tuttavia non ce lo vedo un minchioncino di oggi a cogliere il succo mistico della freddura totoesca. L’assenza di tormentoni per la massa, il doppio senso palesemente univoco e politically uncorrect, il credo monarchico a braccetto con l’azione anarchica, tanto scombinata quanto geometrica nel ritmo e nelle corrispondenze, contribuirono a renderlo una figura complessa, poco consona alle richieste odierne di comicità, piatta e senza risvolti fantasiosi.
Ogni tanto arriva il tizio di turno che “Totò non è che mi facesse tanto ridere”: è in buona compagnia, con quelli che Manzoni è sopravvalutato e cosa avrà mai fatto questo Shakespeare. Il genio non può soggiacere alla dittatura del like, al dominio del gusto personale. Arte oggettiva, credo abbia detto Gurdjieff.
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Ieri ho ceduto a mia figlia una cornice. Doveva inserire un suo disegno, così da papà caritatevole le ho fatto spazio togliendo le immaginette sacre di Totò.
Le ho con me da sempre, in ogni casa che ho abitato. Una cosa semplice, misera e nobile, quasi infantile ma simbolicamente potente: le locandine dei film di Totò ritagliate, ricostruite come un mosaico e incorniciate. Le guardo e viaggio tra onorevoli Trombetta, marchesi Zazà, fratelli Caponi e premiate pasticcerie Cocozza. Ora al loro posto trionfa un unicorno psichedelico.