C’è un grande scrivere sullo scrivere, un oceano di parole sulla scrittura – al quale, evidentemente, sto contribuendo anche io ora. Una metaletteratura che a volte perde di vista, per citare Aldo Nove a proposito della poesia, il “confronto radicale con il proprio inconscio attraverso la parola”.
Per certi motivi ho raggruppato il pulviscolo di appunti, abbozzi, lavori preparatori, annotazioni, idee scritte e accumulate nell’ultimo triennio. Quaderni, notes, post-it appiccicati ben nascosti tra le pagine, fogli volanti. Quasi una dark side, come le facce che fa un attore davanti allo specchio e che non userà mai in scena ma gli serviranno tutte. Forse da un punto di vista di economia delle energie, di oculata gestione del tempo, ha poco senso scrivere prima su carta poi virare in digitale. È un’abitudine antica. Ad esempio dei miei testi su Genesis e King Crimson esistono due versioni, quella originaria inchiostro su foglio, quella definitiva dita su tastiera, poi pubblicata. Una roba manzoniana, il riasciacquo nell’Arno segreto. Serve? Non so, è solo un modo di fare le cose partito da lontane influenze.
“Nulla dies sine linea”, diceva Plinio il Vecchio; “Non perdere la tua ispirazione”, suggeriva Neil Peart. Scrivere sempre, dovunque, in qualsiasi condizione. Prima è nato come impegno arduo perchè appesantito dal senso del dovere, poi è mutato in immersione leggera e fanciulla nella gioia creativa. Ciò che diventerà libro è un punto d’arrivo. Ed è anche una piccola autobiografia attraverso la quale possiamo vedere come si evolve – o involve – la scrittura. Nel mio caso, i libri degli ultimi anni pesano di meno, contengono i primi effetti del lavoro sull’ego che mi fa sentire vicino a uno scultore: la chiave è togliere il superfluo. Fino all’ultimo rigo dell’Enneade Quinta, terza parte: Spogliati di ogni cosa.