Comincio ad avere in odio i necrologi con ricordi inutili e condoglianze pelose. Eppure deve esserci qualcosa che smuove la collettività quando scompare un artista tanto amato: accadde con David Bowie, con Franco Battiato, e in modi diversi possiamo andare indietro fino alla tragedia di John Lennon. Sono perdite di nostri pezzi, di parti che ci hanno composto: una canzone, un disco, un concerto, un gruppo ci costituiscono. Sono mattoni della nostra costruzione personale e collettiva.

È irrilevante specificare quanto abbia amato Ozzy Osbourne e quanto i Black Sabbath siano stati determinanti nella mia formazione di ascoltatore rock. In milioni abbiamo condiviso questa esperienza partendo dal rintocco funebre di campane del primo Lp fino alla lava elettrica di 13, passando per il furioso heavy rock da arena di Ozzy solista. Più interessante è capire il motivo di questo amore transgenerazionale che ha attraversato il tempo, dalla pulsazione catacombale dei primi anni ’70 al recente concertone di Birmingham. Credo che il segreto sia nel suono.

Anche una voce sgangherata come la sua partecipa a un suono, lo caratterizza: il suono del disagio al quale i Black Sabbath hanno dato carnalità viva e materia scura. Il disagio individuale di John Michael Osbourne, dislessico balbuziente bullizzato; quello collettivo di Aston, periferico operaio doloroso di chi lavorava tra il sangue di un mattatoio o si è visto saltare due falangi in fabbrica; quello generale di milioni di ragazzi che si rispecchiavano in un blues sempre più duro, plumbeo, sepolcrale, Sabba Nero vs Figli dei Fiori.

Poco fa Julian Lennon ha condiviso una foto di ignota provenienza ma potente, che a quel Suono riporta.