Ho trovato un vecchio cd risalente a un’epoca in cui leggevo tante, forse troppe, riviste new age – mea maxima culpa.
Era allegato al mensile Olis – Idee per la nuova era. In mezzo ai dischi-gadget col canto dei delfini, le campane tibetane e l’alito della foresta, quel cd si presentava in modo diverso. Dal titolo mi aspettavo roba ribollente anni ‘70 tipo Cactus, James Gang e Zephyr, invece era una antologia di preziosità anni ‘90: fu l’occasione per scoprire i Pell Mell, per toccare lo stato di grazia di Cristina Donà, per scendere nel mare caldo elettrico di Eric Wood. Al centro della scaletta, raggiante pulsazione solare, Maryan di Robert Wyatt.

Se l’arte oggettiva esiste, questo brano potrebbe esserne un esempio. E se esiste, essa si impone a noi da sola, senza la zavorra di chiacchiere, considerazioni, valutazioni: via dall’Impero del Soggettivo. Gianfranco Salvatore parlava di canzoni-verità in relazione ad alcuni classici di Lucio Battisti, riferendosi alla potenza delle sceneggiature firmate Mogol, dove si vedeva tutto, come una fedele regia. Con Wyatt la canzone-verità è canzone-trasparenza: ciò che si sente è.