Personalizza le preferenze di consenso

Utilizziamo i cookie per aiutarti a navigare in maniera efficiente e a svolgere determinate funzioni. Troverai informazioni dettagliate su tutti i cookie sotto ogni categoria di consensi sottostanti. I cookie categorizzatati come “Necessari” vengono memorizzati sul tuo browser in quanto essenziali per consentire le funzionalità di base del sito.... 

Sempre attivi

I cookie necessari sono fondamentali per le funzioni di base del sito Web e il sito Web non funzionerà nel modo previsto senza di essi. Questi cookie non memorizzano dati identificativi personali.

Nessun cookie da visualizzare.

I cookie funzionali aiutano a svolgere determinate funzionalità come la condivisione del contenuto del sito Web su piattaforme di social media, la raccolta di feedback e altre funzionalità di terze parti.

Nessun cookie da visualizzare.

I cookie analitici vengono utilizzati per comprendere come i visitatori interagiscono con il sito Web. Questi cookie aiutano a fornire informazioni sulle metriche di numero di visitatori, frequenza di rimbalzo, fonte di traffico, ecc.

Nessun cookie da visualizzare.

I cookie per le prestazioni vengono utilizzati per comprendere e analizzare gli indici di prestazione chiave del sito Web che aiutano a fornire ai visitatori un'esperienza utente migliore.

Nessun cookie da visualizzare.

I cookie pubblicitari vengono utilizzati per fornire ai visitatori annunci pubblicitari personalizzati in base alle pagine visitate in precedenza e per analizzare l'efficacia della campagna pubblicitaria.

Nessun cookie da visualizzare.

La storia del rock è costellata di “beautiful losers”. Da Syd Barrett a Jim Croce, da Roky Erickson a Nick Drake, all’ombra delle grandi e longeve band c’è stata una moltitudine di splendidi perdenti, personalità eccezionali andate via troppo perso oppure nascoste agli occhi del grande pubblico. Possiamo assegnare lo status di beautiful losers anche a ottimi gruppi, apprezzati dalla critica ma mai baciati dal meritato successo? E nello specifico, il prolifico Dennis Rea può essere considerato tale?

Domanda più che spontanea visto che i Moraine, fondati nel 2009 da Rea e giunti al terzo disco, restano caro a una piccola elite di cultori: ascoltatori sparsi in tutto il mondo, ma pochi se pensiamo alla qualità della proposta. “Groundswell”, ancora una volta con Moonjune, ribadisce il talento della formazione di Seattle: talento unico nel fondere diversi elementi del jazz-rock, del prog e delle pratiche da jam in un calderone avant-rock generoso e coinvolgente, con un buon equilibrio delle parti. Stavolta la firma Rea è accompagnata da James e Alicia DeJoie (rispettivamente fiati e violino), che trovano maggiore spazio ma in un contesto dalla limpida visione d’insieme, mai con momenti di solismo fini a se stessi.

Il cadenzato passo rock di “Mustardseed” e “The earth is an atom”, l’inno “The Okanogan Lake”, la spumeggiante tavolozza elettrica di “Skein” e “Gnashville”, la congiunzione folk-jazz di “Spiritual gatecrasher”, questi i momenti più significativi di un disco eccellente per la tenuta e l’incastro di componenti diverse tra loro (dal clima bandistico e folleggiante caro a certi Gong alle tipiche geometrie crimsoniane). Rispetto ai colleghi di scuderia Marbin, eccezionali nello spingere l’acceleratore, i Moraine mostrano un lato più meditativo e ampio (vedi “In That Distant Place”), che li lega maggiormente all’esperienza prog.

Se questa condizione di cult-band è la condizione necessaria per preservare l’integrità artistica, ben venga l’isolamento di questi beautiful losers del jazz-rock di frontiera.

www.moraineband.com

D.Z.