“Questo è il nostro miglior album da tempo”! Affermazioni del genere, per quanto sgamate, sono frequenti nella prassi promozionale, soprattutto quando c’è una certa attesa nei confronti dell’autore. Ed è così che i Nektar hanno presentato il nuovo album di inediti “Time Machine”, pubblicato a quattro anni dal precedente “Book of days” e a uno dal cover album “A spoonful of time”. Se però il fondatore Roye Albrighton aggiunge che questo è il miglior disco di sempre dei Nektar, si passa facilmente dal dolus bonus alla presa per il culo.

Che “Time Machine” sia un buon disco è pacifico: il coinvolgimento di Billy Sherwood come produttore e bassista, la tenuta di gruppo, una certa omogeneità di fondo sono gli elementi vincenti dell’operazione, che però non si può certo annoverare tra le migliori cose della band. Piuttosto, qual è il loro ultimo album valido? Temo si debba risalire agli anni ’70, probabilmente a “Recycled” (1976), l’ultimo prima della grande sbragatura.

La band inglese, nata in Germania e americanizzata da lungo tempo, prosegue imperterrita nel suo prog a stelle e strisce: conciso, senza fronzoli, melodico ma non scialbo, grosso modo come l’album del 2008. Lì Albrighton e Howden erano in buona compagnia, ora si ritrovano al comando di una nuova band, con Sherwood al basso e il tastierista Klaus Hentasch. Il principale difetto di “Time Machine” è nel suo sviluppo altalenante: accanto brani più che dignitosi come “A better way”, “If only I could” e “Diamond eyes”, orientati a un sound grintoso e radiofonico tra Yes e Kansas, spuntano episodi a dir poco inutili come “Set me free, amigo” e “Mocking the moon”.

Imperdibile per i fan, soprattutto quelli disposti ad accontentarsi.

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D.Z.