Era il 1959. Un titolo come “A kind of blue” lasciava presagire una rivoluzione epocale: Miles utilizzava il blu come chiave di lettura di una profondità, di una liquidità, di uno sviluppo oracolare che avrebbero cambiato radicalmente la storia della musica del ‘900. I tempi sono cambiati, di dischi rivoluzionari non ne arrivano più e il buon Robin Taylor – che nell’indole è un rivoluzionario alla Zappa, beffardo e rigoroso – sforna un titolo che richiama grandi svolte ma che realisticamente si accontenta di un posto al sole nel panorama contemporaneo.

“Kind of red” non cambierà la vita del compositore danese ma il riferimento cromatico va inserito in un percorso artistico sempre teso all’evoluzione, a una proposta musicale sempre ricca di idee, a un discorso di “sostanza”. Taylor è attualmente il musicista danese maggiormente impegnato e la media annuale dei suoi lavori, sia solisti che in ensemble, lo dimostra in pieno.

L’ultima apparizione del suo Universe arrivò nel 2009 con “Artificial Joy”, decimo album del progetto. Dopo tre anni di silenzio Robin si fa risentire con un disco in cui spicca subito un elemento: le tastiere vintage. I cultori del prog demodè drizzeranno le orecchie ma Robin fa a modo suo: utilizza anche tastiere giocattolo, opera in quel territorio indistinto tra rock, jazz, musica colta e sinfonismo moderno con le icone di Zappa e Fripp sul comodino e nuovi sodali come i fiatisti Jakob Mygind e Hugh Steinmetz.

Non sono tanto i suoni analogici quanto la scrittura a rendere il disco un bell’esempio di prog-fusion contemporanea, che usa sia forme come marcette e bolero (“Crackpot men”) sia sviluppi tipici del rock-jazz (“Firestone”, “Tortugas”) in un singolare equilibrio. “Kind of red” nulla aggiunge al corposo songbook tayloriano ma resta sempre un ascolto ricco di spunti.

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D.Z.