I gesti sacri delle mani, ieratici.
La mano sinistra consente, accoglie; la mano destra ferma, ordina; il compimento nell’ellisse bifocale della provvidenza, diceva Léon Bloy.
Nelle afose e ferme domeniche di visita ai miei genitori accolgo e riordino oggetti di un’altra vita. Esiste qui un ordine antico, predisposto durante l’adolescenza, ridisposto dall’altrui vecchiezza, reinventato dallo spirito critico del ritorno.

A cavallo tra anni 80 e 90 compravo le cassette in edicola, economiche e simboliche: il nastro girava, la musica finiva, celebrato il matrimonio alchemico si ripartiva, nuovo giro nuovo viaggio. Amo ancora la circolarità dell’ascolto, con la pausa che è sondaggio interiore, metabolismo emozionale.
De Agostini e Fabbri sfornavano serie periodiche sulla storia del rock. Oggi probabilmente inutili e pleonastiche ma all’epoca, nei buchi neri della provincia inferiore, restituivano il sapore di una piccola vittoria. Se non ricordo male la serie Fabbri, dedicata al live, aveva i libretti scritti da Red Ronnie: la fame di musica era tale che facevo finta di non vederla, quella firma.
Un lungo sorriso insiste e dura ancora quando penso a Grace Slick. Alla fine di Somebody To Love esclama, stralunata sulla nuvoletta lisergica, “I don’t know what’s next”. Il pezzo a seguire era . Un’altra faccia c’è sempre.