La parola ferisce, convince e placa. Il senso dello scrivere secondo Ennio Flaiano.
Ho sempre scritto, ovunque, con qualsiasi strumento. Dal fazzoletto di carta urgente al mio nuovo Chromebook. Scrivevo chissà cosa in una delle mie primissime foto, con una penna a stantuffo gommoso di cui ancora ricordo consistenza e profumo.
Ebbi in regalo dai miei l’oggetto più magico della mia fanciullezza: un teatrino dei burattini in legno, arancione, tipo tempietto con sipario, con le maschere della commedia dell’arte da maneggiare con dei fili attaccati dietro la testa. Le facce degli omini erano di gesso colorato, pian piano persero i lineamenti e divennero inespressive, stimolandomi a dargli nuova personalità con la scrittura. Avrò avuto sette anni e scrissi una sorta di commedia, registrai anche le parti su quegli affaroni preistorici della Philips con delle TDK che all’epoca mi sembravano avveniristiche.
Il mio primo libro serio nacque su un laptop paleolitico in un angolino per non dare fastidio a nessuno. Esprimersi liberamente a volte è percepito come un privilegio dorato, pochi colgono la rabbiosa impellenza che scava dentro e getta via umori maligni. Ancora oggi uso un computerino. Sorrido se penso che quel rettangolo contiene mondi che arriveranno al lettore.
In questo periodo la scrittura si manifesta anche in forme diverse, dal convegno scientifico al recital con band, passando per il seminario nell’oasi di qualche giorno fa. Vivo anche la radio come un’estensione della scrittura: la parola visibile e tangibile si incarna nel microfono e viaggia tra etere e streaming. E i treni restano il luogo migliore per la nascita dei libri. Movimento, dinamismo, scripta manent.
(Ph. M. Cotugno)