Tanti anni fa, prima di un incontro con i ragazzi di una scuola media, non ricordo più se a Bergamo o Brescia, la moderatrice mi presentò come uno “che fa tante cose”.
All’epoca mi piaceva non solo essere riconosciuto come tale, ma proprio vivere con questo instancabile e multiforme dinamismo. Probabilmente ero convinto che quando si fanno più cose si impara di più. Evidentemente dovevo riempire chissà quanti vuoti.

Van Morrison fa una marea di dischi, lo amo ma non riesco più a stargli dietro, mi stanca e mi annoia. Meglio chi ne sforna pochi ma dona pezzi di cuore che aprono nuove vie sotto le stelle.
Così ho cominciato a ridimensionare, a sottrarre. Provo a fare poco e bene, in accordo con la mia coscienza. Perseguo l’idea della vita come una scultura, dove è solo col togliere che viene fuori l’essenza.

Credo mi abbia aiutato anche Lucio Battisti.
Ha tolto tante parole dalle sue note, tanti gesti inutili dal suo fare musica. Non mi riferisco solo ai pochi concerti, al fastidio per la promozione e le interviste, ma anche al modo di pensare la musica. Anima Latina, un disco in cui aveva davvero tanto da dire, era caratterizzato dallo spostare il peso della voce verso il basso, spalmandolo insieme al suono. Un invito serio, accorato, all’ascolto.

Ne sa qualcosa Renato Marengo.
È uno dei nomi di riferimento per gli studi battistiani – e non solo: basta pensare al suo ruolo nel Naples Power, al Concerto per Demetrio etc. – principalmente per la storica intervista fatta a Lucio nel 1974, durante la lavorazione del suo disco più visionario e creativo.

Tempesta Editore pubblica la versione aggiornata del suo libro dedicato a quell’incontro.
Quando l’anima diventava latina.