Non per diletto nè per diporto, ma per studio e investigazione, anzi per ri-cognizione umana e artistica, abbiamo intrapreso un soggiorno marocchino.

Ho scattato pochissime foto, precisamente due. Una al portone magnificamente intarsiato di un riad un po’ sgarrupato in pieno deserto, l’altra in questo vicoletto nel dedalo della Medina di Marrakech, a due passi dal Dar Si Said, Museo nazionale di tappeti e tessuti. Qui ci sono i colori che porto impressi in me come un timbro mistico: il rosa arenaria, l’azzurro maghrebino. In mezzo e in fondo Rosaria, sfinita dal contrattare a oltranza in vista del Prezzo Finale, santo graal di ogni trattativa nel pullulare del suk, e Monsieur Abdellatif, un distinto berbero di Agadir che ci ha guidato nei meandri odorosi della città vecchia, trionfo del fuori squadra.

Ho deciso di non regalare ai social visioni e pensieri: alla fine dell’anno uscirà un mio librino di memorie e riflessioni dal marocain tour. Con una piccola grande playlist dal lungo giro sahariano con Said, che senza sapere della mia passione per il blues dei tuareg ha sparato un’infinita e sabbiosa sequenza di Tinariwen, Tamikrest, Terakaft, Tartit, Ibrahim Djo Experience et ainsi de suite.

ٱلسَّلَامُ عَلَيْكُمْ