Da ragazzi di provincia profonda, pervasi da quel senso carbonaro dell’esistenza, ci si incontrava in luoghi iniziatici. Più era palese la loro centralità, più accentuato era il clima da sabba segreto. Ai semafori, alle panchine, all’incrocio, al parcheggio. Ricordo un traffico losco con baratto di Just Say Ozzy su vinile per una cassetta degli Urban Dance Squad – il primo ceduto all’amico capellone, la seconda persa chissà in quale gorgo di prestiti. O al semaforo il blocco di pischelli fiondatosi in autobus per ricevere brevi manu le cassette di Testament e Death SS che non ascoltavo più o che mi vergognavo di possedere: il ricavato fu investito in Islands dei King Crimson. Usciva esattamente cinquant’anni fa.
La sequela di lockdown ci ha insegnato che la fisicità, il confronto di sguardi, la tangibilità del contatto non sono sostituibili. Così anche per un secondo, in macchina col passaggio di consegne al finestrino perché si scappa sempre in un infinito affanno, continuiamo a praticare scambi.
Mario Giammetti, con cui spero di sedermi un giorno intero a tavola con un bicchiere che non finisce più per esorcizzare questo stillicidio di incontri fugaci, mi ha consegnato il suo nuovo libro.
Un onore ogni volta, ma stavolta ancora di più perché non è così frequente che uno scrittore italiano pubblichi direttamente in Inghilterra e in inglese un libro su una delle più grandi rock band britanniche. Mercoledì 15 ne parleremo in radio con lui.
Una mesta giornata di pioggia che impasta i manti di foglie amaranto, uno scambio ipercinetico di libri e dischi dinanzi al supermercato perché il tempo stringe, pagine perfette per un ascolto autunnale. Just a pool of tears.