Goccia dopo goccia.
Ieri sera ho svuotato la bottiglia d’olio, travasando il fondo in una tazzina. Ho osservato il tondo gialloverde, un minuscolo mare interno colato dall’alto, che avvolto dal bianco circolare ha preso nuovo tono. Un mélange di oro vecchio e solidago scuro, mutazione alchemica che deriva da interazione. Il contatto destabilizza, arrevota e cambia.
In sottofondo c’era Us.
Questo disco lacerato, balsamico, furente e gentile, il 28 settembre compierà trent’anni. Ancora oggi parla a ognuno di noi. E’ nato da una vicenda dolorosa, drasticamente intima, ma una volta disceso nel mare di suono profondo ne è riemerso universale; una mano tesa da un oceano di rinascita. L’anno successivo i Rush di Counterparts avrebbero completato la riflessione sulle corrispondenze.
Chris Welch ha scritto che l’intero album, dal rosso autoritario della copertina alle ultime battute di liberazione dal pensiero rumoroso – What was it we were thinking of? Shh, listen -, è il cammino di iniziazione a Secret World. Il giardino segreto in fondo agli abissi. Qualcuno avrà trovato la sua canzone, sua e del suo specchio, tra sonno e sogno. Us si è imposto con dolcezza insistente in questi giorni. Ha svelato cose – quando non si entra per rubare si parla, si ascolta, senza veli – poi le ha rivelate. Gli spazi. Borges e il fuoco.
Inciampo puntualmente su Steam, una Sledgehammer atto secondo, presenza aliena anche in un disco-mosaico. Un R&B postmoderno e roboante, utile a posizionarsi bene in situazioni redditizie, ma così diverso dalla riservata versione Quiet. Se la prima è sgargiante, esplicita, la risposta lo-fi è nuda e tremolante, un ciclo fatuo, una ruota d’incanto che dà valore al sussurro finale: but I know you.